Di Laura Elia
Il gioco può essere un ottimo strumento di insegnamento e quindi di apprendimento a tutti i livelli; può essere addirittura utile per l’apprendimento di un lavoro o di una professione.
Proprio nella formazione e nell’addestramento a fini professionali, il gioco sembra essere riuscito ad ottenere quel riconoscimento che il mondo dell’istruzione scolastica è restio a concedergli.
Naturalmente la modalità del gioco è utilizzata nella scuola materna e talvolta sopravvive qua e là nella scuola dell’obbligo. In seguito le sue tracce si perdono, salvo riaffiorare timidamente in qualche istituto universitario.
Dunque, il gioco è per bambini o per gli intellettuali, almeno nell’opinione comune.
Molti sociologi, invece, hanno evidenziato l’aspetto liberatorio dell’Io che il gioco permette anche in età adulta, ma forse l’eccessiva esaltazione del suo valore psicoanalitico gli ha nuociuto più che essere d’aiuto.
Rimane dunque il fatto che giocare non è mai considerato un processo produttivo degno di essere preso in considerazione.
Se invece non si parte dal presupposto che le cose serie siano necessariamente quelle di cui non ci si diverte, allora si comincia ad affrontare il problema dal verso giusto.
Il gioco è un’attività divertente, il che implica che può essere seria.[1]
Il filosofo Eugen Fink (1905-1975), attribuiva al gioco un’importanza fondamentale: “per capire il gioco dobbiamo conoscere il mondo e per capire il mondo come gioco dobbiamo acquisire un’intuizione del mondo molto più profonda”.
Ma un ostacolo fondamentale a questo tipo di indagine riflessiva è la comune e diffusa credenza che l’uomo che gioca non pensi e che l’uomo che pensa non giochi.
Fondamentale invece è intuire come il gioco sia un’azione reale dell’uomo reale. Infatti, nell’attività di gioco, il giocatore compie anche azioni reali. Queste ultime hanno una sorta di doppio fondo: sono azioni del giocatore come tale ma anche azioni del giocatore conformi al ruolo che egli ha assunto nel gioco rappresentativo.
Il gioco è un esercizio di vita a rischio controllato, una palestra, una simulazione, un prepararsi a vivere.
Il gioco, dunque, è in grado di liberare energie e creatività, costituendo una dimensione di arricchimento e offrendo l’opportunità di crescere singolarmente e come gruppo.[2]
Iohan Huizinga[3] attribuisce al gioco delle caratteristiche principali che aiutano a capirne la realtà intrinseca:
il gioco è libero, è libertà;
il gioco non è la vita ordinaria, la vita vera: è un allontanarsi da questa per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria. Non essendo vita ordinaria sta al di fuori del processo di immediata soddisfazione di bisogni e desideri. Si presenta come azione provvisoria che ha fine in sé.
il gioco è accompagnamento, complemento e parte della vita in generale. Adorna la vita e la completa e, come tale, è indispensabile. È indispensabile all’individuo, in quanto funzione biologica, ed è indispensabile alla collettività per il senso che contiene, per i legami sociali e spirituali che crea;
il gioco comincia e ad un certo momento è finito. Ha dunque limiti di tempo, ma anche di spazio. Mentre ha luogo c’è un movimento, un andare su e giù, c’è il turno, l’intrigo e il distrigo. Giocato una volta, permane nel ricordo ed è tramandato e ripetuto: questa possibilità di ripresa è una delle qualità essenziali del gioco. Ogni gioco si muove entro il suo ambito, il quale, sia materialmente che psicologicamente, è delimitato in anticipo.
Il tempo e lo spazio del gioco sono mondi provvisori entro il mondo ordinario, destinati a compiere un’azione conchiusa in sé. Entro questi spazi domina un ordina proprio e assoluto;
il gioco crea un ordine, è ordine: realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporanea, limitata. In questo stretto legame con l’ordine (per cui una deviazione rende il gioco brutto), sta la ragione per cui il gioco viene spesso associato alla sfera dell’estetica. Il gioco tende ad essere bello e tende a creare ordine.
Il gioco vincola e libera. Attira l’interesse. Affascina, cioè incanta. E’ ricco delle due qualità più nobili che l’uomo possa riconoscere nelle cose ed esprimere egli stesso: ritmo e armonia
Il gioco di simulazione: uno strumento per la formazione
È possibile apprendere giocando?
Se ponessimo questa domanda a chi oggi si occupa di educazione alla mondialità e allo sviluppo, molto probabilmente ci risponderebbe di sì. Altrimenti non si spiegherebbe il diffondersi di pratiche interattive nella formazione di tematiche così ostiche, come quelle economiche.
Secondo Arnaldo Cecchini (forse il più attivo studioso, in campo universitario, della simulazione oggi in Italia) “la simulazione giocata è la manipolazione di un modello attraverso l’assunzione di ruoli sottoposti a regole”.[4]
I giochi di simulazione hanno proprio l’obiettivo di partire dall’esperienza e, attraverso una simulazione (mettersi nei panni di, fare come se), far sperimentare dinamiche che aiutano a comprendere meccanismi complessi.
I giochi, per come sono strutturati, implicano agli “attori” un coinvolgimento di tipo emotivo e razionale, facilitano l’apprendimento attraverso la sperimentazione, stimolano l’astrazione degli elementi fondamentali del tema partendo da ciò che hanno “giocato”.
Un po’ di storia
Nella prassi operativa i giochi di simulazione applicati a processi di formazione e di addestramento hanno una genesi ben precisa. I giochi di formazione per l’addestramento aziendale, oggi così diffusi (i cosiddetti Business games), hanno avuto origine dai giochi di guerra (war games), ideati e utilizzati per elaborare strategie ed addestrare, con situazioni di guerra simulata, gli ufficiali destinati ad attuare queste strategie in situazioni reali.
I progenitori degli attuali war games sono nati in Germania all’inizio dell’800; da allora si sono sviluppati diffondendosi in tutta l’Europa, prima in Inghilterra e poi in Italia, e di qui negli Stati Uniti.
Solo alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, un membro dell’AMA (American Management Association), assistendo ad una simulazione durante una visita all’Accademia Navale degli Stati Uniti, ipotizzò che un metodo simile potesse essere applicato alla formazione manageriale.
In seguito l’AMA pubblicò “Top Management Decision Simulation”, primo business game ufficiale per manager aziendali, dando il via ad un processo di produzione di una serie di simulazioni che si diffusero poi nel resto del mondo.
Parallelamente, a partire dagli anni della seconda guerra mondiale, si cominciava ad applicare in ambito formativo aziendale una tecnica originariamente nata con finalità psicoterapeutiche. Si trattava delle tecniche di assunzione di un ruolo (role-playning), ideate all’origine come psicodramma da L. Moreno[5] per l’analisi e la cura di problemi psicologici che si generano nell’interazione tra persone.
Il role-playning stimola l’apprendimento attraverso processi di prova/errore, imitazione e osservazione del comportamento.
“Il role-play” si basa sull’azione spontanea di partecipanti preventivamente inseriti in una situazione ipotetica, ed è senza dubbio la forma più semplice di simulazione…”.[6]
La validità di fondo del metodo rimane quella di apprendere un contesto nuovo, o conoscere meglio uno già noto, attraverso l’assunzione, in prima persona, anche se temporanea e per finzione, di un ruolo diverso da quello usualmente ricoperto.
Negli ultimi decenni sono stati prodotti molti giochi con finalità didattica, rivolti non solo alla formazione aziendale ma in generale al mondo dell’educazione, dove si fondono in diversa misura le componenti della simulazione e del ruolo.
Le fasi per un gioco di simulazione sono:
1) Introduzione: dell’animatore/conduttore/formatore (chi conduce il gioco e il relatore non devono necessariamente corrispondere)
2) Svolgimento del gioco: fase strutturata (personaggi, regole chiare, trama), simulata vera e propria
3) Debriefing: fase di dopogioco, discussione sul tema a partire dal gioco. Si suddivide in vari momenti:
- Condivisione delle emozioni provate durante il gioco
- Focalizzazione del tema e raffronti con la realtà
- Individuazione di possibilità e comportamenti alternativi
Il tempo di ciascuna fase dipende dal gioco che si sceglie. La gestione del tempo è una competenza del conduttore che si acquista strada facendo: un gioco portato troppo per le lunghe rischia di annoiare, come un tempo ristretto potrebbe non far emergere i punti salienti della dinamica. Anche per la fase del Debriefing, è necessario ascoltare continuamente il gruppo, soprattutto i messaggi non verbali che dicono molto di ciò che i partecipanti stanno provando.[7]
Il master
Fondamentale, in qualsiasi conduzione di gioco, è ritenere il master di gioco, il conduttore, colui che non fa, ma colui che spinge a fare. Per spingere a fare è necessario prestare grande attenzione alle esigenze degli utenti, ai messaggi che di continuo inviano, verbalmente e, soprattutto, attraverso il corpo.
Il bravo animatore-conduttore è un grande osservatore e ascoltatore; è una persona che di continuo si esercita sul punto di vista altrui per coglierne le reali esigenze.
“L’animatore non è il militare che prepara la strategia prima dello scontro o l’attore che recita il suo copione, indipendentemente dal pubblico che ha di fronte. L’animatore non è neanche il perfetto educatore che conosce sempre la cosa giusta da fare con ogni persona.
Saper ascoltare significa abituarsi a diventare un attento osservatore, saper inquadrare la situazione in cui ci si trova, tener ben aperti occhi ed orecchie. E agire di conseguenza”.[8]
Ogni animatore-conduttore di giochi dovrebbe avere degli obiettivi prima di proporre delle esperienze. Tra questi obiettivi, fondamentali come punto di base e di partenza, ve ne devono essere tre:
Sviluppare l’autonomia;
Sviluppare la responsabilità nei confronti degli altri;
Sviluppare la capacità critica, intesa come coerenza tra quello che l’individuo è e quello che sembra, ossia la capacità di relazionarsi in maniera autentica, e non per quello che per quello che vorrebbe sembrare o che gli altri si aspettano da lui.
Nel proporre le attività, l’animatore-conduttore di giochi, deve far proprio alcuni linguaggi comunicativi in grado, come si diceva all’inizio, di colpire attraverso le emozioni, le situazioni che prendono il cuore.
Molto utili, come palestra di allenamento, sono alcune tecniche teatrali in grado di liberare il corpo e renderlo strumento attivo di comunicazione (una delle tecniche più efficaci è il Teatro dell’Oppresso, vedi bibliografia).
L’animatore deve essere un professionista in grado di unire alle capacità inventive e alla capacità di divertirsi giocando, la consapevolezza pedagogica delle sue scelte.
E’ una figura quanto mai essenziale oggi che molti bambini e ragazzi hanno disimparato a giocare, a fantasticare, a collaborare in una squadra, a ridere, a usare la meraviglia per vivere l’avventura.
“C’è fame di adulti significativi…”[9], di adulti che diano significato alla loro presenza con proposte che, passando dalla strada dell’esperienza, accompagnino nella strada della
[1] ISFOL “Simulazione come metodologia formativa” Ed. Franco Angeli, Roma, 1989
[2] P. Marcato – C. Del Guasta – M. Pernacchia “Gioco e dopogioco”, Ed. La Meridiana, Bari, 1997
[3] J. Huizinga “Homo Ludens”, Ed. Einaudi, Torino, 2002
[4] A. Cecchini – J.L. Taylor “La simulazione giocata”, Ed. Angeli, 1987
[5] J.L. Moreno “Manuale di psicodramma. Il teatro come terapia”, Ed. Astrolabio, Roma,1985
[6] J.L. Taylor – R. Walford “I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento”, Mondatori, 1979
[7] ISFOL “Simulazione come metodologia formativa” Ed. Franco Angeli, Roma, 1989
[8] M. Cassanmagnago – F. Ravot “Il metodo albicocca: manuale del bravo animatore”, La Meridiana, Bari, 2001
[9] A.Marchiori introduz. a “Il metodo albicocca: manuale del bravo animatore”, La Meridiana, Bari, 2001
Penso che tutta questa base “teorica” andrebbe ricondivisa, magari con l’occasione di inserimenti futuri di nuovi operatori.
Partire dal perchè giochiamo e usiamo il gioco con AVIS SCUOLA sarebbe una base comune su cui ripartire